lunedì 24 ottobre 2011

QUESTA NON E' UN'ESERCITAZIONE

Siamo sette milioni ad avere tra i ventuno e i trent'anni: possiamo votare al Senato e alla Camera, ci dibattiamo nella babele dell'università o del lavoro e il nostro è un viso giovane. Giovane ma di quell'evanescenza statistica per cui gli esperti ancora non hanno trovato un'etichetta: non più la generazione X del grunge di Kurt Cobain, annegata silenziosamente in un lago di lacrime e incoscienza né tantomeno quella dei Giovani e Belli parricidi del '68.
Questo, in politica, ha un senso storico innegabile: gli ex Sessantottini hanno scacciato i padri padroni e si sono conquistati le redini del Paese, i dimenticati degli anni Novanta invece sono stati inghiottiti da Crono.
Noi abbiamo visto fallire i nostri fratelli più grandi, avviati a fare la stessa fine di Carlo d'Inghilterra e a non raggiungere mai la cima di quella che al tempo dei miei genitori si chiamava scala sociale e che oggi non si chiama per niente, in ossequio al repulisti della toponomastica da Prima Repubblica.
Ciò che ci colloca un gradino sopra rispetto ai trenta-quarantenni da 1000 euro al mese non è la nostra aspettativa di reddito, forse lo è la nostra maggior specializzazione, di sicuro lo è l'accidente temporale per cui viviamo la nostra giovinezza nel momento in cui gli ultimi fuochi di un impero in rovina si stanno spegnendo.
Perdonate, il cinismo è lo strato più spesso della nostra corazza e la semplice verità è che la generazione politica al governo ora - i settantenni Giovani e Belli per capirci - sta per raggiungere il capolinea biologico, giusto in tempo per non provare mai sulla sua pelle che ‘il potere logora chi non ce l'ha'.
Dopo di loro il diluvio?
Questa è la vera domanda, perché quel dopo è alle porte e parlare di ricambio generazionale ora è fumo negli occhi: esso non è che sia possibile, è inevitabile. Anagraficamente inevitabile.
Ecco perché sono irresistibilmente desuete le sonnacchiose serate dei talk show, spese a discutere di ricambio generazionale in politica con una selva di sessantenni uomini sprofondati in poltrona.
Eppure la risposta sarebbe tanto semplice, e l'unica consolazione è il torto che tali gentiluomini fanno alle loro intelligenze mentre discutono: alzatevi, uomini di destra e di sinistra. Alzatevi e lasciate che si siedano donne e uomini che capiscono questo tempo.
Certo, sperare che Hobbes avesse torto quando sosteneva che homo homini lupusforse sarebbe l'ennesima ingenuità che non ci possiamo permettere.
L'ipotesi più verosimile è dunque che sarà un ricambio figlio della sconfitta: non nostra ma della generazione di mezzo, che ha fatto il delfino del re e un bel giorno s'è svegliata vecchia.
Premesso questo, dalle sconfitte ci si solleva, dalle sconfitte si impara.
Perché noi, nati e cresciuti senza la forma mentis da sistema binario che è stata la Guerra Fredda, sappiamo che la crisi si chiama crisi e non è un nome né di destra né di sinistra.
Perché noi sappiamo che gli aerei non si chiamano solo Alitalia, che viaggiano in tutto il mondo e che i cervelli in fuga possono rientrare con un massimo di 14 ore di volo, e che se non rientrano fisicamente esiste Internet.
Ma soprattutto - e questo è il merito che va riconosciuto alla generazione che ci ha educati - non abbiamo dimenticato che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Chiedete ad un giovane cosa vuole: risponderà lavorare.
L'alternativa a questa attesa dell'ineluttabile è quella che beffardamente chiedono a gran voce le eterne primedonne della politica: di essere scacciati, perché la gioventù di oggi si guadagni sul campo il marchio del vincente.
In questo guanto di sfida si consuma il vero fraintendimento rispetto al mondo in cui vivono e che ancora governano, perché non hanno capito che non è la loro politica quella che noi vogliamo fare. Non è la politica accentrata tutta negli oscuri palazzi romani, perché quella fa venire in mente il putridume di Tangentopoli e la corruzione catiliniana di oggi: il malaffare che ha instillato in noi il sospetto che è più di un sospetto, quasi certezza, che chi amministra la cosa pubblica lo faccia per interesse privato.
Questo fango rappreso è ciò che allontana noi figli della crisi, e rischia di farci abdicare al diritto e dovere di prendere nelle nostre mani lo Stato.
Noi giovani parliamo di politica, ne parliamo su facebook, ne parliamo nei blog, e la facciamo quando ci raduniamo in piazza a fare lezione all'aperto perché non ci sono strutture adeguate, quando andiamo a votare ai referendum sull'acqua e a firmare contro la legge-bavaglio.
E - nonostante quanto si creda - parliamo di politica anche stando dentro i partiti, con la conquistata consapevolezza non solo che per quanti lavorano sotto la bandiera con un simbolo ce ne sono altrettanti che sotto quella bandiera non ci vogliono stare, ma anche che questo sia un plus per la democrazia, la quale è tanto più sana quanti più militanti ha, infine uniti sotto quell'ultima garanzia che si chiama Costituzione.
Che ci si arrivi con uno strappo o dopo un'ulteriore attesa, la vera sfida per noi sarà quella di ridare significato e dignità al termine politica, che non ha più come sola voce il partito ma è fatta di una socialità più articolata.
Ecco allora ciò che serve, ciò che ci appassiona: ridare profondità alla parola, fare sì che torni ad essere ‘res publica' e sinonimo di civiltà.
Chi sta al potere forse non se ne accorge, ma già lo stiamo facendo. Lo facciamo ogni giorno quando decidiamo di non lasciare l'Italia, quando scendiamo in piazza contro i tagli all'istruzione, quando vogliamo eleggere per nome e cognome i nostri rappresentanti in parlamento e anche quando decidiamo di darci da fare all'interno di un partito, mettendo a disposizione il nostro tempo e la nostra intelligenza e chiedendo il rispetto delle regole: le primarie e il vincolo tre mandati.
Cambiare è possibile, ma bisogna farlo con la testa invece che con le urla o i piagnistei rinunciatari dei cosiddetti astensionisti del tanto-sono-tutti-uguali, nuova maschera radical chic dei qualunquisti.

(scusate ma siccome è un articolo che ho scritto per un sito di Trento mi hanno chiesto di non copia-incollarlo)