martedì 29 novembre 2011

BIM BUM CRACK: Europa e movimenti civili al tempo della cris

GIOVEDì 1 DICEMBRE, ORE 11.30 IN AULA 13 (Luiss Guido Carli, via Parenzo 11)

http://www.facebook.com/event.php?eid=253534184702636

Crisi economica: esiste una via d'uscita?


Lo confesso, la prima volta che, nell’ormai lontano 2008, sentii parlare di Fannie Mae e Freddie Mac pensavo si trattassero di cartoni animati. In realtà dal fallimento dei due colossi immobiliari statunitensi è partita probabilmente la tempesta economica del secolo.
Ben presto infatti la “perturbazione” americana ha coinvolto anche l’Europa portando l’intero occidente sull’orlo del baratro, con il rischio di default per diversi stati e mettendo a repentaglio l’esistenza stessa dell’euro.
Spesso si parla di questa crisi come qualcosa di indefinito e imprevedibile, le cui cause sono oscure e le conseguenze un destino ineluttabile, come a dire,parafrasando Clinton, “it’s the economy stupid”.
In realtà l’attuale crisi affonda le proprie radici e ragioni nella cultura economica dominante degli ultimi 30 anni in cui le dottrine neo liberiste si sono affermate nell’ostilità alla fissazione di qualsiasi regola nei confronti dei mercati, e  delle attività finanziarie in genere,  nel diffuso convincimento di una onnipotente mano invisibile del mercato, nella fiducia cieca in meccanismi riequilibratori automatici.
Politicamente tutto ciò si è tradotto,a partire da Regan e Tatcher in poi,su entrambe le sponde dell’Atlantico,in politiche di deregolamentazione finanziaria e smantellamento progressivo dello stato sociale,nel convincimento che qualsiasi intervento,a maggior ragione se dello stato,costituisse un insopportabile freno per lo sviluppo economico.
Le conseguenze disastrose di queste politiche sono oggi sotto gli occhi di tutti.
L’ aver favorito la fuga del capitale dalla produzione ha ad esempio fatto si che l’import export di beni e servizi nel mondo è stimato intorno ai 15000miliardi di dollari l’ anno, il mercato delle valute ha superato i 4000 miliardi al giorno, come a dire che circolano più soldi in quattro giorni sui mercati che in un anno nell’economia reale.
In Europa la stessa crescita di Spagna e Irlanda fondata sul mercato immobiliare piuttosto che su regimi fiscali di favore per le multinazionali si è rivelata fragile e inconsistente perché non basata su solidi fattori produttivi ma su speculazioni finanziarie.
Tutto ciò ha generato conseguenze durissime per le economie e le società occidentali,ovunque v’è stagnazione,la disoccupazione che galoppa,le imprese chiudono per non riuscire ad accedere al credito necessario, mentre le stesse banche magari elargiscono bonus esorbitanti ai propri manager.
La strada per uscire da questa situazione non può essere segnata dalle politiche perseguite negli ultimi trent’ anni e di quelle egoisticamente imposte dalla Germania ai partners europei in difficoltà.
Privilegiare in questo momento politiche di restrizione dei bilanci pubblici, di contenimento dell’ inflazione o di riduzione del debito pubblico vuol dire soffocare le possibilità di ripresa. A cosa servirebbe avere un rapporto deficit/PIL al 3%  con una disoccupazione dilagante?
Sarebbe invece necessario perseguire, in un quadro di politiche fiscali e monetarie coordinate a livello europeo,obbiettivi volti alla crescita,alla piena occupazione, all’equilibrio commerciale fra gli stati membri ad una maggiore equità distributiva nei paesi e fra i paesi,come sottolineano molti economisti.
E’ necessario a questo punto abbandonare i conservatorismi nazionalistici  che, a cominciare dal direttorio franco tedesco, hanno impedito risposte comunitarie rapide ed efficaci alla crisi.
Una radicale riforma in senso democratico delle istituzioni è l’ obbiettivo che devono porsi le forze progressiste europee.
Il compimento dell’ unità politica, dopo quella economica, è la stella da seguire per uscire dalla tempesta.

lunedì 21 novembre 2011

Vedi Cara, è difficile capire se non hai capito già.


E insomma, al netto della retorica dell'a-ognuno- quel-che-si-merita, possiamo dire che all'oggi la nostra generazione ha le canzonette peggiori. Non che ci si voglia sempre lamentare, per carità, ma avere come canzone di formazione 'mi fido di te' di Jovanotti son cose che segnano una storia politica. Soprattutto se il ritornello fa 'cosa sei disposto a perdere?'.
Certo, in questa sfida al giovanilismo più suicida anche Bersani ha sfoderato l'artiglieria, andando a ripescare il sempreverde Vasco di 'Un senso', e anche in questo caso è tutto uno sventolare di accendini canticchiando 'anche se questa storia, un senso non ce l'ha'.
Cose che quasi (ma anche no) fanno invidiare quell'accattivante motivetto che è 'Meno male che Silvio c'è': un po' ripetitivo forse, ma senza il rischio di vaticini nefasti nascosti tra le strofe.
Prima regola delle canzonette: non importa quanto il titolo possa essere azzeccato per la campagna elettorale e importa ancora meno che il fonico sfumi guarda caso proprio su quella rima portajella, se fai il giovane dentro che conosce i gusti dei giovani fuori devi sapere che sulla Smemoranda i testi delle canzoni si copiano per intero, terze strofe incluse, ovviamente dopo averle mandate a memoria.
E pensare che noi di sinistra ci vantiamo da sempre di avere i cantautori migliori, di quelli che si inventavano versi tipo 'una locomotiva/come una cosa viva/lanciata a bomba contro l'ingiustizia' e a nessuno importava che quella santa canzonetta avesse più strofe de 'il 5 maggio" di Manzoni: tutti dico tutti la sapevano a memoria, con buona pace della professoressa di italiano lasciata appesa a un 'dall'Alpi alle Piramidi/dal Manzanarre al Reno', e poi?.
Certo, in fondo un po’ son da capire i politici di sinistra, mica di mestiere tengono rubriche di musica, e poi ci hanno messo quattro-dico-quattro anni a decidersi che dal palco si saluta in versione ufficiale con 'cari democratici', tralasciando quello spinoso 'amici-e-compagni', non si può mica poi sparare in cassa 'Bella Ciao'.
Non che non la si canti più, intendiamoci, quella rimane l'evergreen più evergreen di sempre e non mandarla almeno una volta è sinonimo di sicuro flop da immaginario collettivo. Però adesso serve a scaldare gli animi prima dell'inizio, e per fortuna in questo caso non serve sfumare nessuna strofa.
Certo, c'è da dire che non è facile scegliere la canzone corretta da fine manifestazione, quella che chi è durato ore sotto il palco si fermi per altri tre minuti emmezzo a cantare e che faccia sentir parte di quel qualcosa che.
E qui arriviamo alla seconda regola della perfetta canzone scaldacuore: deve essere cantabile. Di quelle con la strofa che sale e sale fino al ritornello e lì senti la piazza che parte.
Provateci un po' con 'mi fido di te' o 'un senso'. Non è puntiglio, ma Vasco e Jovanotti sono gli unici due cantanti italiani che non cantano. Ora però ci si sta riprovando, adesso a fine manifestazione parte Neffa con 'Cambierà'. E il primo che si lagna che loro-Guccini-noi-Neffa paga pegno e la recita a memoria dal palco, questa ‘Cambierà’, strofe comprese.

venerdì 18 novembre 2011

Lampedusa, le vent les portera


Falai, ragazzo dagli occhi tristi, è una delle prime persone che ho conosciuto alla Base Loran di Lampedusa, centro di accoglienza per i minori non accompagnati. Era più silenzioso degli altri, non partecipava ai giochi per non tradire le regole del Ramadan in corso, ma non si allontanava e restava a guardarci affacciato dalla finestra che dà sul cortile. Mi piaceva parlare in francese con lui, compensavo i suoi silenzi con la mia naturale loquacità… finché non mi interruppe per dirmi: “Christine, c’est seulement de ma liberté que j’ai besoin”…
Falai ha 17 anni, è nato in Guinea Bissau, uno dei Paesi più poveri della Terra, considerato dall'ONU Quarto Mondo. Parla due lingue: il kriol, un creolo portoghese, e un francese impeccabile. E’ coraggioso, ha una sensibilità spiccata, maturità e profondità di pensiero. E’ intelligente, partecipa alle lezioni di italiano con concentrazione e avidità di sapere. E’ soltanto della sua libertà che ha bisogno: la libertà di uscire da quella prigione, la libertà di sognare la sua vita.
Quando arrivo a Lampedusa, a metà agosto, sono circa 220 i bambini e gli adolescenti rinchiusi da settimane nelle due strutture di detenzione: alcuni nel "Centro di primo soccorso e accoglienza" di Contrada Imbriacola, altri nella base in disuso dell'Aeronautica militare, a poche decine di metri dai radar di difesa antimissile e dai campi elettromagnetici e a chilometri di distanza dalle spiagge amene, con le acque diafane e i fondali incontaminati...
Sono originari della Nigeria, del Gambia, del Mali, della Costa D’Avorio, del Niger. Sono partiti senza i loro genitori. Da giorni e giorni non possono uscire dal recinto di filo spinato e lamiere, arroventato dal sole. Lì dentro, un caldo infernale, il ronzio degli insetti, le mura inumidite, spazi vasti e nudi, poi corridoi angusti che conducono a stanze soffocanti.
La desolazione del luogo contrasta con la vitalità dei ragazzi: hanno forza ed energie, ma le giornate sono interminabili… Beauty fa le treccine alle sue amiche, mentre i ragazzi le ammirano e ascoltano musica da una radiolina; altri sono nella sala mensa (spoglia di tavoli e sedie) che guardano "Forum" proiettato su un telo bianco. Altri non li ho conosciuti, li ho solo visti affollarsi per affacciarsi dalle finestre dei piani superiori…
Giochiamo insieme, cantiamo, balliamo (adorano l’hip pop!), teniamo lezioni di italiano, raccogliamo i loro racconti… Sono frammenti preziosi di storie di disperazione e di coraggio, di tragedie e di conquiste, di speranza, di sogni… Sono le storie che studieranno i miei figli, quando nei testi di scuola si leggerà che agli inizi del nuovo secolo centinaia di uomini morirono nei nostri mari per raggiungere la terraferma, che migliaia furono privati della libertà e della dignità, mentre un angolo di paradiso nel cuore del Mediterraneo diventava l’isola della vergogna…
Per gli uccelli l’isola è un punto di appoggio, dove fermarsi e riposare, prima di proseguire oltre. Tra l’immagine di Lampedusa come recinto chiuso, luogo di reclusione e privazione, e l’immagine degli uccelli di un’isola come spalla su cui poggiare il volo… preferisco quella degli uccelli!
E allora va’ Falai, ragazzo dagli occhi buoni, esci da quella prigione! Che ti sia dolce anche la pioggia nelle scarpe… Spero di incontrarti, ancora…

lunedì 14 novembre 2011

Turchia: una guerra civile

"Questa terra che viene galloppando dall'Asia
E raggiunge il Mediterraneo come la testa di una cavalla
                                                                                          è nostra

Polsi nel sangue, denti stretti, piedi nudi
E questa terra che assomiglia a un tappetto di seta
Questo inferno,
                       questo paradiso,
                                                sono nostri

Chiudiamo queste porte aliene
                                                che non verranno riaperte!
Aboliamo la schiavitù per sempre!
                                                   Questo invito
                                                                        è nostro

Vivere come un albero,
                                    libero e pacifico
E come una foresta in solidarietà!
                                                      Questo desiderio
                                                                                è nostro"

          
Diceva il grande poeta socialista Nâzım Hikmet durante gli anni della lotta. Avevamo una repubblica giovane che aveva salvato un paese dalle catene della teocrazia islamica e dalla dominazione imperialistica dei grandi poteri dell'epoca come la Gran Bretagna e la Francia. Eravamo poveri ma sopratutto, eravamo in possesso di un gioiello d'incalcolabile valore, l'indipendenza.

Ahimè, però, non potevamo rispondere una domanda semplice che oggi ci insedia come un incubo sanguinoso: "Chi siamo noi?"

Ecco il problema principale dei figli della guerra civile. 

Io conosco questa situazione abbastanza bene perchè sono di Turchia e un figlio di una guerra civile, proprio come i miei fratelli coreani, irlandesi, libanesi e tutti gli altri che "sono colpiti dagli zombie nelle loro teste".

E' troppo difficile però, evitare gli zombie come nella canzone dei Cranberries. Quando l'aggressore spara per la prima volta, la società si divide in almeno due identità. In alcuni casi le identità sono religiose, come nel caso dell'Irlanda, o ideologiche, come nel caso della Corea e della Libia. Il nostro caso, però, è il caso più pericoloso nella mia opininone; perchè noi abbiamo un conflitto fra etnie.
E a questo punto risaliamo alla prima domanda: "Chi siamo noi?"

Il nostro grande eroe nazionale e il fondatore della Prima Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal aveva dato una risposta abbastanza precisa: "Si chiama la nazione turca tutte le genti che hanno fondato la Repubblica." .

Se guardiamo la risposta sociologica incontriamo la definizione: "Una nazione è una società che consiste delle persone e dei popoli che si condividono dei valori culturali e hanno una storia e uno scopo in comune." .

Allora abbiamo una nuova domanda: "Chi sono queste persone o questi popoli?"

Se osserviamo la Guerra di Indipendenza, la risposta è semplice: Il popolo turcomano, il popolo curdo e il popolo cirasso avevano combattuto insieme contro i poteri imperialistici e avevano fondato un nuovo stato laico e democratico guidati dai rivoluzionari che li avevano guidati anche nella guerra, quindi erano una nazione.

Quindi, vari popoli che erano vissuti sulla stessa terra, che si condividevano dei valori culturali si erano uniti per un unico scopo, quello di liberarsi dalla crudeltà degli imperialisti.

A questo punto si chiede: "Che cosa è cambiata?"

Possiamo cominciare con la fine della Prima Repubblica con il colpo di stato del 1980 ma prima, devo chiarire lo sfondo del colpo di stato e il problema sociale.

Essendo un rivoluzionario nazionale, Mustafa Kemal aveva provato durante la sua presidenza a distruggere totalmente la struttura feudale delle regioni populate dai curdi.

Per questo motivo, aveva preparato una riforma agraria nei suoi ultimi anni ma non aveva potuto realizzarla perché doveva reprimere le ribellioni di carattere feudale nelle stesse regioni.

Dopo sua morte, però, il suo successore, il cosidetto "Capo Nazionale" İsmet İnönü lascia la politica del suo predecessore contro i signori feudali (per concentrarsi sulla WWII) e prova a raggiungere un accordo con essi. Questa nuova politica di İnönü viene ripresa dai suoi successori Celal Bayar, il primo presidente liberale e Adnan Menderes, il primo primo ministro di destra (e sfortunatamente un mio compatriota), e poi da altri uomini di potere.

Nel 1968, cioè l'anno glorioso delle forze di sinistra in tutto il mondo, i giovani universitari che sono legati al Partito dei Lavoratori di Turchia (TİP) e alla Federazione dei Gruppi Ideologici (FKF) avevano ripreso la questione curda ed avevano cominciato un nuovo movimento anti-feudale per la libertà del popolo curdo, un socio principale della rivoluzione del 1922.

Questa nuova tendenza per rifornire l'unità aveva dominato la sinistra turca per un decennio e si era riflessa anche sulla lotta del popolo curdo che cercava di liberarsi dell'oscurità e dell'oppressione della classe feudale.

Nella mezzanotte del 12 Settembre 1980, però, tutta questa lotta è stata soffocata e un regime fascista dominata da una giunta militare ha preso il potere.

Questo regime ha portato con sè una nuova costituzione che proibiva il diritto di organizzarsi, gli scioperi, e le dialette curde, distruggendo effettivamente la Prima Repubblica.

Con migliaia di socialisti imprigionati e torturati, la sinistra era in una situazione di decadimento.

A quel punto è salito al potere il PKK, che era un'organizzazione paramilitare fondata per l'unico scopo di distruggere la lotta della sinistra per rifornire l'unità dei popoli di Asia Minore.

Dalla sua fondazione nel 1978 fino al colpo di stato nel 1980, il PKK aveva massacrato 20 membri del Partito dei Lavoratori e dei Contadini di Turchia (TİKP) e 5 membri della Via Rivoluzionaria (Dev-Yol) per diventare l'unica organizzazione cosidetta "rivoluzionaria" nelle regioni orientali.

Dopo il 1980, il PKK era diventato ancora più potente siccome tanti intellettuali di sinistra avevano cominciato a fidarsi in esso.

Nonostante questa fede, il PKK si è alleato con i signori feudali e ha iniziato una guerra etnica "de jure" contro lo stato.

Però, questa guerra è sempre stata "de jure" proprio perché entrambi le parti sono sempre state i sudditi dello stesso oppressore.

Perciò i giovani del mio paese, i miei compatrioti, i miei fratelli e le mie sorelle sono morti e continuano a morire in una guerra sporca, per un progetto disegnato nell'oltremare.

Quelli che sono morti da entrambi le parti erano i figli dei lavoratori, dei contadini e dei disoccupati, cioè i figli del 99% della popolazione. Questo fatto mostra ampiamente che gli unici che approfittano di questa guerra sono gli oligarchi e i venditori di armi e nessun altro.

Oggi, il 29 Ottobre, è l'anniversario della fondazione della Prima Repubblica e abbiamo perso due cittadini alla guerra civile. Per di più il nostro governo ha deciso di non lodarla per la prima volta nella storia. Questa festa non è soltanto una festa da festeggiare, questa festa è una festa che consolida la nostra unità, quindi non lodarla è una vizia principale se parliamo della nostra esistenza come una nazione.

Considerando tutti questi fatti terribili, possiamo dire che la Turchia ha una speranza?

Certo che sì!

Come diceva una nostra intellettuale rivoluzionaria: "Il momento più oscuro della notte è il momento più vicino alla mattina".

Dobbiamo lottare per la pace finché vediamo il Sole!